Conciliazione famiglia-lavoro: penalizzate le donne

Parlare di conciliazione fra la famiglia e la vita lavorativa significa toccare un ambito nel quale è spesso difficile districarsi poichè si corre sempre il rischio di non riuscir bene a circoscrivere la molteplicità di situazioni che possono esserne comprese. Nello specifico qui si vuole indicare una situazione che bene o male tocca, o può toccare, la vita di tutti, cioè le attività di cura verso figli o familiari in difficoltà.
Questo non vuole assolutamente essere un mero elenco sterile di dati quanto invece una riflessione in merito a un tema sul quale, almeno una volta nella vita, dovremmo affacciarci.
Il PERCHÉ del tema?
Perché nel momento in cui si parla di conciliazione vita-lavoro spesso si fa riferimento a un ruolo di caregiver affidato prevalentemente alle donne:
tale associazione è pressoché implicita, frutto di un retaggio culturale che nonostante gli anni e lo sviluppo continua a caratterizzare il pensiero comune; tuttavia seppur si tratti di un trend in continua evoluzione i dati confermano la permanenza di tale prospettiva.

L’ISTAT nel 2018 ha evidenziato come proprio il tasso di occupazione, nel caso in cui in famiglia sia presente un minore di 0-14 anni, sia dell’89,3% per gli uomini e, al contrario, del solo del 57% per le donne (tenendo però presente come tale tasso, nel caso in cui NON vi sia la presenza di figli, sia del 83,6% per gli uomini e del 72,1% per le donne).


Tali dati confermano come siano proprio le donne, nel momento in cui vi sia la necessità di ‘’cura’’, a modificare o abbandonare il proprio lavoro per far fronte alla specifica necessità di assistenza e questo perché è proprio la prospettiva sociale che genera nella donna una sorta di senso del dovere; una sorta di obbligo che nasce implicitamente nel senso comune come se da questo ne derivasse la completezza di una donna.


Infatti sono i dati a confermare questa tendenza, circa il 38,3% delle donne occupate, fra i 18 e i 64 anni, con figli sotto i 15 anni hanno dichiarato di aver dovuto modificare aspetti professionali per conciliare lavoro e famiglia; al contrario degli uomini il cui valore è pari all’11,9%.
Tuttavia, oltre ai retaggi che caratterizzano la nostra cultura, altri possono essere i motivi che portano le donne ad abbandonare la propria posizione lavorativa per dedicarsi all’attività di cura, fra queste vi sono: una retribuzione più bassa che eventualmente dovrebbe essere in gran parte investita per l’utilizzo di servizi ad hoc per la cura e l’assistenza, oppure situazioni come quelle generate dalla disparità di retribuzione fra i generi, c.d. gender pay gap, l’onerosità oppure la mancanza di posti in suddetti servizi.
In ragione di quest’ultimo aspetto l’ISTAT, mediante la sua indagine nel 2018, ha posto alla luce come tra le motivazioni per il quale non si ricorre a servizi vi è proprio il costo particolarmente elevato per circa il 9,6% delle persone (in particolare per i genitori i cui figli hanno un’età prescolare), oppure il 4,4% lamenta l’indisponibilità o l’assenza di posti all’interno di servizi di cura e di assistenza.
Una prospettiva come quella da poco emersa a volte è semplicemente una scelta di vita sul quale non c’è molto su cui discutere ma la realtà, a volte, è ben diversa: talvolta appare necessario fare delle rinunce ma non è sicuramente equo che tali rinunce debbano essere necessariamente legate al ruolo delle donne in virtù di un obbligo sociale e all’eventuale stigma che ne deriverebbe nel caso in cui le scelte di vita di quest’ultime siano fuorvianti rispetto all’aspettativa sociale.

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Roberta Marasco

3 pensieri su “Conciliazione famiglia-lavoro: penalizzate le donne

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